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New York anno zero (anzi no)

di Paolo Madron

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10 settembre 2009

Nell'immenso salone del ristorante Four Seasons, su Park Avenue, è l'ora del power lunch, il pranzo dei potenti. Sembra invece di stare al refettorio di un convento. Sarà per i pochi tavoli occupati, per l'enormità dello spazio che esalta i vuoti, ma l'atmosfera è penitenziale. C'è David Dinkins, l'ex sindaco nero di New York, 83 anni ben portati, che parla fitto con il suo commensale. E al lato opposto, con altri quattro, Felix Rohatyn, di qualche mese più giovane, che è stato un grande banchiere della Lazard, e anche un civil servant che negli anni Settanta contribuì a salvare la città dalla bancarotta. Chiedo al direttore di sala se sia l'effetto della crisi. Lui mi offre una sintesi folgorante. «Vuol sapere la differenza tra la Wall Street di oggi e quella di un anno fa? Che al ristorante non occorre più prenotare». Gli faccio osservare che le banche hanno cominciato a caracollare molto prima, con i subprime. Risposta tranciante. «Per noi tutto è iniziato con il fallimento della Lehman Brothers. Ma stia tranquillo, tornerà come ai bei tempi».

Già, se se si getta un occhio alla borsa, e soprattutto a come l'economia di carta è tornata a macinare soldi, uno potrebbe anche credergli. Su questo camerieri e banchieri concordano. A un anno esatto dalla morte di Lehman Brothers, che a questo punto passerà alla storia per essere stata la sua vittima sacrificale, una rediviva Wall Street si avvia senza troppi patemi alla ripetizione dell'identico. Se ci riuscirà, se potrà archiviare la più brutta caduta dal Dopoguerra come una delle tante bolle e ripartire, resta da vedere. Certo, si è sbarazzata dei più deboli, di chi non aveva una forte lobby a proteggerlo, di quelli che giocavano in proprio facendo della loro non appartenenza un motivo d'orgoglio. Ma passata la tempesta è sempre lì, uguale a prima, con le sue banche voraci, i suoi bonus stellari, i prodotti che corrono pericolosamente lungo il confine della tossicità. E con i ricchi che, in qualche caso vistosamente meno ricchi, si affannano per recuperare i soldi perduti. Tutto ciò a dispetto della nuova era di frugalità predicata — per la verità con scarso seguito — da Tim Geithner, l'uomo che Barack Obama ha voluto alla guida dell'economia. Un po' poco, se l'intenzione era quella di convertire la gente a un nuovo modello di sviluppo. Wall Street is dead, long live Wall Street, sempiterno motore di un capitalismo ormai poco sostenibile.

Ma resta un cruccio, qualcosa che proietta ancora un'ombra sulla ripartenza. Gli americani non consumano, o consumano troppo poco per rifare della loro economia la gioiosa macchina da guerra che fu. Il fenomeno è allarmante perché coinvolge anche i campioni del lusso per definizione anticiclici. Basta fare un giro sulla Quinta Strada o sulla Madison per vedere che anche loro vendono sotto costo, «Up to 70%», recitano i cartelli: fino al 70 per cento di sconto per smaltire scorte che non si smaltiscono mai. Segno che i magazzini riforniscono gli scaffali con merce fresca. E poi c'è la disoccupazione che non accenna a diminuire. Viaggia costantemente sopra il 10 per cento, con punte del 15 come nel Michigan, lo Stato che di questi tempi ha la sfortuna di ospitare l'industria dell'auto e molto del suo indotto. Così tra l'ottimismo generale si insinua la voce degli scettici: se non c'è lavoro e la gente non va nei negozi impossibile venirne fuori. Sarà perciò anche tecnicamente finita, ma la recessione percepita, che è poi quella vera, morde ancora. I blog sono pieni di racconti di chi ha perso il lavoro, le librerie di manuali che insegnano come ritrovarlo. Ma la conclusione di Outliers: The Story of Success, il best seller di questi mesi, è un durissimo colpo al mito dell'intraprendenza che la terra delle opportunità ha sempre premiato. Più di tutto conta la fortuna, il lato B della vita. È in aumento la relocation, il fenomeno per cui si cambia città e Stato scegliendo i posti dove vivere costa meno. Per questo non occorre andare negli anfratti del Midwest. Se a New York uno guadagna 150mila dollari all'anno a Los Angeles gliene bastano 100mila, ed è già un bel risparmio. Ma se invece sceglie Indianapolis gli va ancora meglio: appena 54mila. Cade il mito dell'autonomia, del college come atto simbolico che spezza per sempre il cordone ombelicale che lega i ragazzi ai genitori. Adesso che molti perdono il lavoro, si ritorna a casa da loro, e li si rivaluta come la più affidabile forma di welfare.

Che la finanza sia tornata a tirare forte non c'è dubbio. Lo dicono le trimestrali delle banche e gli utili di alcune grandi corporation sopra le stime. Chiesto di un parere sui quasi 11 miliardi di dollari di bonus che la Goldman Sachs ha deciso di distribuire ai suoi dipendenti, i più alti nei 140 anni della sua storia, il presidente degli Stati Uniti si è affrettato a precisare che la banca aveva restituito tutti i soldi che il governo le aveva prestato. Dunque poteva comportarsi come meglio credeva. Affermazione che rivela la disarmante logica di chi scambia gli effetti con le cause, eludendo il problema. L'industria finanziaria americana è stata salvata dai soldi dei contribuenti, i quali in cambio non hanno avuto nulla a pretendere, nemmeno il più ovvio degli interventi: una riforma del mercato che evitasse in futuro il ripetersi del cortocircuito che rischiava di farla fallire. Solo che la riforma langue, vuoi perché la gran parte dei consiglieri economici di Obama a Wall Street sono stati indiscussi protagonisti e beneficiati, vuoi perché è la stessa industria finanziaria che non tollera troppo vincoli ai suoi animal spirits. Tanto comunque, alla fine, c'è sempre qualcuno che paga le sue aberrazioni. Ed è questo che fa imbestialire gli americani, che li fa applaudire a ogni articolo di giornale che mette sotto accusa le banche. Tecnicamente discutibile, la mega inchiesta di Rolling Stones sulla Goldman Sachs, definita come «la piovra che allunga i suoi tentacoli dappertutto», ha avuto un enorme consenso tra i lettori. A molti non è piaciuta per niente al deificazione di Ben Bernanke: non si è accorto della tempesta che arrivava, e poi ha lasciato andare o salvato banche con discutibile discrezionalità. «Ora dovrà fare esattamente il contrario di quel che ha fatto prima», ha sarcasticamente commentato Edmund Andrews sul New York Times. Ma questa voglia di gettarsi tutto dietro le spalle, di dimostrare che le regole liberiste del Washington Consensus sono tutt'altro che morte, lascia serpeggiare molte ansie. Una inquieta più di altre. Un conto è teorizzarla nelle discussioni accademiche, fidandosi delle stime che vedono ancora lontano il sorpasso della Cina. Ma la fine dell'impero americano e lo spostarsi dell'asse verso nazioni-continente che non saranno terra di conquista ma formidabili concorrenti sta diventando consapevolezza diffusa.

  CONTINUA ...»

10 settembre 2009
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